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Racconto finalista pubblicato nell’antologia del Concorso “Ve lo racconto io il mito”, ed. del 2022,  organizzato dall’Associazione Italiana di Cultura Classica “Antico e Moderno” e dalla Libreria Mondadori di via Piave, Roma

                                                                                narciso

Nacque un bambino con una bellezza tale da rendere tutti invidiosi e innamorati di lui. Era splendido sì, ma lo era tanto che sua madre ebbe dubbi sul futuro del bambino. Era così strano che il fascino di un fanciullo potesse essere dannoso, eppure era così. 

Narciso si chiamava e pareva figlio di una ninfa e di un dio. Era divino e tutti cascavano ai suoi piedi e, nonostante Narciso amasse le lodi per il suo aspetto, non sapeva nemmeno come fosse fatto. Era così bizzarro, ma la madre di Narciso, Liriope, ricevette consiglio da Tiresia, l’indovino: <<Narciso vivrà a lungo, basta che non conosca se stesso>>. Mai il suo sguardo avrebbe dovuto incrociare quello del suo riflesso, perché, se lo avesse fatto, l’amore provato per sé stesso lo avrebbe consumato e ucciso. Liriope lo fece crescere senza tecnologia e alcun contatto con il mondo: niente amici, cellulari o specchi. Rispetto alla tutela del figlio, nient’altro importava. Narciso crebbe, solo ma non del tutto, perché, sebbene vivesse in una casetta nel bosco, chi passava di lì poteva ammirarlo… Tutti lo amavano, ma Narciso li mandava via con superiorità, perché sapeva che nessuno sarebbe stato mai alla sua altezza. Liriope vigilava su di lui, ma Narciso era un ribelle. Narciso era tante cose, tutti siamo tante cose, ma a ciascuno di noi manca qualcosa che l’altro ha. 

E come Narciso era privo di un animo nobile, anche Eco, una bella fanciulla, che perse la testa per lui, mancava di udito. Eco era splendida, ma sorda e, quando vide Narciso, capì subito la sua bellezza fatale. Temette di essere derisa, che le sue aspettative fossero solo speranze, presto infrante, che non avrebbe dominato la voce e che non avrebbe scandito le parole nel modo giusto. Eco prese coraggio e parlò a Narciso comunque, ma il cuore, già pieno di dubbi, si infranse per colpa di lui, che la prese in giro per “il modo in cui blaterava”. La notizia dell’audace dichiarazione di Eco si sparse velocemente, fino ad arrivare all’orecchio di Nemesi, la cosiddetta “dea della vendetta”, che amava impicciarsi dei fatti altrui e spesso li prendeva un po’ troppo sul personale tanto da diventare  vendicativa. Avendo appreso della delusione di Eco, rossa di collera, decise di dare una lezione a quel vanitoso e arrogante. Aveva sentito delle follie di Liriope e decise così di prenderlo in giro, facendo incrociare lo sguardo del suo riflesso nel fiume vicino al bosco, dove Narciso non era mai andato, su obbligo di Liriope. Nemesi lo convinse, costringendosi prima a lodarlo, visto che era l’unica a non desiderarlo come gli altri. 

Narciso, arrivato e avendo visto il suo riflesso, rimase abbagliato. Nemesi non poteva sapere che, quando lo avrebbe lasciato solo, dopo essersi divertita e aver avuto ciò che cercava, egli avrebbe cercato di raggiungere sé stesso, del quale si era innamorato perdutamente, si sarebbe sporto troppo, sarebbe caduto nel fiume senza lasciare traccia. 

Infatti il giovane aveva gli occhi puntati sul suo riflesso e sorrise. Anche l’acqua lo fece e distese le braccia, come per raggiungerlo: davanti a sé due mani cercarono di afferrarlo. Nemesi si divertì, fin quando Narciso non pronunciò: <<Il dolore mi sta consumando>>. Ella non capì, ma annoiata se ne andò, soddisfatta per quanto ottenuto. Narciso, intanto, voleva solo raggiungere il suo riflesso e amarlo per il resto della vita. Trovò dimora nei fondali del lago, addormentato, e mai fece più ritorno. Nessuno lo ricordò mai per la sua dolcezza e bellezza d’animo, perché niente di questo è mai esistito. Come Liriope aveva sostenuto, la sua bellezza era nulla, perché mancavano le altre qualità che rendono una persona veramente affascinante. Narciso credeva che si sarebbe potuto amare, ma l’amore, ridotto a ossessione per sé, causa dolore e perdita. Era narcisista Narciso e non c’è parola migliore per descriverlo, se non il suo nome stesso. Narciso ora è un fiore: bellissimo, ma anche questo non ha l’animo sperato da Eco …

 

                                                                                                             Maria Teresa De Cicco, I A ORD

 

 

pandora 

Una “nuova” Pandora

 Alle spalle di Efesto si scorgeva una figura di argilla. Il dio ammirava orgoglioso la sua opera e ritoccava qualche dettaglio. Suo padre Zeus gli aveva ordinato di modellare una figura femminile da consegnare agli uomini. <<Consegnerò agli uomini un dono avvelenato. Conosceranno la malattia, la sofferenza, la discordia, la paura>> gli aveva riferito Zeus, adirato, perché Prometeo aveva dato il fuoco agli uomini, e deciso a dare loro una lezione. 

Ora nella fucina, dove Efesto aveva realizzato la sua opera, Pandora avrebbe preso vita.

Atena le donò la saggezza, Afrodite la bellezza e la grazia, Ermes l’astuzia e la furbizia.

<<Gli uomini ti accoglieranno, ignari di accogliere la loro stessa rovina>>, annunciò il padre degli dei e inviò Pandora sulla terra, in sposa ad Epimeteo, fratello di Prometeo, insieme a un vaso sigillato. I giorni passavano. Immagini si affollavano nella mente di lei: figure familiari, un essere dalla forma indefinita, che le raccomandava ipocritamente di non aprire quello strano vaso, così da suscitare in lei la curiosità di scoprirne il contenuto. 

Una mattina, però, smise di sentire gli odori e le voci, le palpebre si chiusero, finché le rimase solamente il tatto. Le sue dita avvolsero il vaso e tolsero il coperchio. 

Un sibilo acuto e un odore acre fuoriuscirono. Gli uccelli cessarono di cantare, gli alberi di muovere i loro rami, un pesante silenzio invase ogni luogo. 

Pandora, terrorizzata, provò a richiudere il coperchio, ma una forza superiore glielo impediva. Grida, lamenti, sofferenze provenivano da ogni dove. Pandora si rese conto che da quel vaso era fuoriuscita ogni specie di mali, di disgrazie, malattie, invidie, discriminazioni, disuguaglianze, virus, inquinamento, povertà, conflitti, violenze. 

Con enorme sforzo, ella volse lo sguardo verso il vaso: un odore nuovo, persino gradevole, proveniva dal suo interno, ma Pandora, disperata, richiuse il vaso con tutte le sue forze.

I mali, intanto, si erano impossessati ormai degli uomini: il mondo era cambiato per sempre. 

I conflitti, la violenza, i cambiamenti climatici, lo sfruttamento dell’ambiente, la deforestazione, la povertà, un nuovo virus, il COVID-19, erano diventati quotidianità. 

Ogni giorno Pandora pensava al momento in cui aveva aperto il vaso. Al pensiero le lacrime le rigavano il volto, adombrato dalla tristezza, ma anche dalla curiosità di riaprire il vaso, per scoprire cosa fosse quell’odore gradevole, percepito prima di richiuderlo. 

Un pomeriggio soleggiato la fanciulla con il vaso si recò nel bosco, dove era solita bagnarsi nei ruscelli e contemplare il paesaggio. 

Le sue mani spinsero il coperchio e lasciarono che fuoriuscisse un suono soave, un odore piacevole che inondò ogni luogo sulla Terra. Improvvisamente gli uomini presero coscienza delle disgrazie e pensarono a soluzioni. 

L’inquinamento diminuì  grazie a gesti quotidiani: spegnere le luci, quando si esce da una stanza, utilizzare mezzi di trasporto sostenibili, non lasciare televisioni o computer in stand-by, per limitare il consumo dell’energia elettrica, investire sulle fonti rinnovabili. 

I capi di governo compresero che i Paesi del mondo dovevano cambiare i modi di produrre e di consumare. Il razzismo, le discriminazioni di ogni tipo, le disuguaglianze furono contrastate, valorizzando le diversità, le culture, facendo imparare un linguaggio positivo e non discriminatorio alle nuove generazioni, rendendo possibili i cambiamenti. Anche il COVID-19 fu sconfitto, grazie ai vaccini, rispettando il prossimo, adottando le giuste precauzioni. 

Finalmente Pandora aveva liberato le soluzioni ai problemi degli uomini e avrebbe vissuto serena, con la consapevolezza di aver rimediato ai suoi errori ed aver realizzato il vero progetto di Zeus, che era quello di far comprendere agli uomini, attraverso la sofferenza, che non si può pretendere di essere “dominatori” ma soltanto “parte” del mondo e si devono rispettare tutte le altre forme di vita.

                                                                                              Martina Benedetta Anna Facciolla, I A ORD

 

Daniel Hopfer Voluptas WGA11729

Voluttà

Da tempo non si sentivano risate di un bimbo dall’alto Olimpo. La piccola Voluttà deliziava gli dei con il suo sorriso e la sua bellezza; del resto era figlia di Cupido e Psiche. 

Venere non era favorevole all’unione del suo adorato figlio con colei che era stata mortale, per giunta troppo affascinante per i suoi gusti e, in particolare, detestava il frutto del loro amore. 

Vedeva Voluttà gattonare e gorgogliare per tutto l’Olimpo e pregustava la sua vendetta.  Elaborava un piano per infliggere a Psiche la pena più grande: perdere sua figlia. Avrebbe fatto in modo che un giovane uomo, con il quale la dea aveva stretto un accordo, circuisse l’ingenua Voluttà, affinché non ritornasse fra gli dei.

Ogni sera, Venere raccontava alla nipote quanto fosse bella la Terra per le acque cristalline, i verdi prati, i fiori dai colori svariati, le terre baciate dal sole e i giovani che vi abitavano. 

Così una sera, spinta dalla curiosità, Voluttà convinse Mercurio a scortarla sulla Terra. Una volta arrivati, il dio alato posò Voluttà su una scogliera e ascese all’Olimpo, comunicando a Venere, che la giovane era arrivata a destinazione come previsto. Voluttà rimase stupita dalla bellezza del mare e del riflesso della luna piena. L’unico pensiero, che la turbava, era che i suoi genitori notassero la sua assenza. Cominciò a vagare, ammirando le meraviglie terrene, finché la stanchezza non si fece sentire e si accasciò. La mattina seguente si ritrovò stesa su morbide lenzuola di seta, un drappo  rosso scendeva su una coperta finemente ricamata con fili d’oro e un profumo intenso di fiori, a lei sconosciuto, impregnava l’aria. ignorava dove si trovasse o come fosse arrivata lì: rammentava solo l’odore dell’erba bagnata che l’aveva trasportata nel mondo dei sogni. Decise così di alzarsi dal letto ed esplorò quello che le pareva un palazzo. Non sapeva dove recarsi per conoscere il suo ospite, così si ritrovò in una sala da pranzo. Varcata la soglia, vide un uomo, di nome Ancus, che le chiese di sedersi. Voluttà  ringraziò e gli disse che sarebbe andata via, per non recare disturbo. 

Il suo ospite le propose di restare per mostrarle il lago sul quale Vulcano, dio del fuoco, aveva creato una grotta incantata cosparsa di cristalli, che avrebbero portato l’amore a chi fosse riuscito a staccarne uno.

Voluttà accettò, perché non aveva trovato mai nessuno che avesse suscitato in lei interesse. Cassia era diversa dal meschino fratello Ancus e constatava come Voluttà fosse ingannata dai suoi modi. Intanto sull’Olimpo Amore e Psiche erano folli per il dolore e si rivolsero proprio a Mercurio, il quale disse che della giovane non c’era traccia, gettandoli nello sconforto: il piano di Venere stava funzionando. Arrivò il giorno in cui Ancus disse a Voluttà di volerla condurre nel luogo più bello della terra e ordinò a Cassia di preparare ciò che sarebbe servito alla fanciulla, per affrontare il viaggio l’indomani. Quella sera Voluttà sprofondò in un sonno agitato. Sognò un bosco  nel quale  la dea Veritas, nascosta in fondo a un pozzo, rivelava a sette sacerdotesse, che attingevano l’acqua sacra, una verità irraggiungibile. Voluttà si svegliò di soprassalto e rimase il monito di non inseguire un’illusione. Dopo due giorni, arrivarono vicino al lago e Ancus le disse che, per ottenere quello per cui era venuta, avrebbe dovuto proseguire da sola, addentrandosi nella grotta che si sarebbe illuminata sotto la luce di mille cristalli. Poi avrebbe dovuto staccarne uno e non di più.  Ella si disse che nulla le sarebbe potuto accadere: era una dea e cosa poteva farle un mortale? 

A passo veloce per l’impazienza, avanzò nel buio della grotta ma sentì la voce di Vulcano che le rivelava il piano di Venere. Non riuscì ad uscire: rocce infuocate vennero fuori dal pavimento e le ostruirono il passaggio. Si pentì di aver dato ascolto a quella dea vendicativa. 

Intanto Cassia, che non si era mai fidata del fratello, quel giorno aveva pensato bene di seguirli. 

Era tornata lì e, sentendo i lamenti della giovane, arrivò fino alla prigione di rocce. Voluttà, felice di vederla, le rivelò chi fosse e come dovesse raggiungere l’Olimpo, per chiedere aiuto. 

Raggiunto il monte sacro, Cassia fu accolta da Amore e Psiche che, ringraziandola, corsero a liberare Voluttà e non si capacitarono di quanto ideato da Venere, che si punì da sola fallendo nel suo piano.

                                                                                                                Alice Magaly Vuono, I A ORD

Testo proposto dal Prof. Flavio Nimpo

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