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Riflettendo su Vittorio Alfieri…

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Nella figura di Vittorio Alfieri si coglie una svolta decisiva della cultura italiana settecentesca. Soltanto una generazione lo divide da Goldoni e Parini, ma, se essi riflettono sostanzialmente l’opposizione illuministica, Alfieri si auto colloca in un’altra e precoce dimensione storica, già in germe romantica.

Vive nell’Europa dell’assolutismo e nel giovane appassionato ed inquieto, la tirannide monarchica provoca reazioni esasperatamente negative. È, difatti, mosso da “odio purissimo della tirannide in astratto”. Ripugna, inoltre, il culto della scienza, ha orrore per ciò che concerne “l’evidenza gelida e matematica”, “per i gelati filosofisti, che da null’altro son mossi fuorché del due e due son quattro”. 

Il freddo razionalismo scientifico soffoca quella violenza emotiva, in cui egli ritiene consista la veridica essenza dell’uomo: spegne il fervore dell’immaginazione.

L’esasperato individualismo ed egocentrismo, che sono propri del carattere del giovane, lo inducono a scontrarsi con la contingente situazione storica e politica con cui si relaziona quotidianamente, producendo un’avversione ed un’insofferenza incurabili.

È innanzitutto l’ambiente, in cui nasce e si forma, a suscitare il suo radicale rifiuto: il Piemonte sabaudo, caratterizzato da un assolutismo paternalistico, da un’aristocrazia devota e ligia alla corona e da un contesto economico e culturale, che oserei definire stagnante, privo di alcuna dinamicità. Risulta a tutti gli effetti straniero, isolato in una patria ed in un’epoca gelidamente avverse. È accompagnato da un senso di solitudine che, lungi dall’essere percepito come limitazione, è tramutato in condizione propizia e favorevole, nel nome di una dimensione simbolica di spirituale superiorità. Esalta la dismisura, la passionalità sfrenata, in un culto della vita intensa, composta da moti spontanei. L’orgoglio illuministico per le scoperte scientifiche gli è del tutto estraneo. Possiede piuttosto l’affascinante senso dell’ignoto che si interseca indissolubilmente con le ragioni profonde dell’essere.

Il prossimo è soltanto nemico, come risulta anche nel suo aristocratico rifiuto dello spirito borghese, teso all’utile e all’interesse materiale. Legge nello sviluppo economico unicamente l’incentivo al moltiplicarsi di una massa di gente meschina ed arida, incapace di concepire alti ideali e che ignora l’autenticità dei sentimenti spontanei.

L’astio e lo sdegno, che egli nutre nei confronti dell’ordine oppressivo, non consistono in una critica di una forma particolare di governo, colto nella sua specificità storica e giuridica, ma nel rifiuto del potere in sé in assoluto ed in astratto, in quanto ogni forma di quest’ultimo è iniqua e oppressiva, possedendo una “facoltà illimitata di nuocere.”

“Base e molla della tirannide ella è 

la sola paura. E da prima, io distinguo 

la paura in due specie, chiaramente fra

loro diverse, sia nella cagione che 

negli effetti: la paura dell’oppresso,

e la paura dell’oppressore.” 

(Della tirannide, libro I)

Un altro dettaglio, che mi ha suscitato non pochi pensieri, è il concetto dell’astrattezza della libertà, ad oggi più che attuale. 

Alfieri si esalta per le rivoluzioni del suo tempo nel loro primo slancio insurrezionale, che distrugge il vecchio ordine precostituito e dispotico, ma, appena si assestano in un nuovo equilibrio, assume atteggiamenti sfiduciati. 

La libertà possiede i caratteri di un’entità evanescente e fulgida, un miraggio crudele dai bordi sfumati in una nebbia fitta di grigiore, disordini ed ansietà.

La libertà è un’aspirazione immateriale, un’illusione inafferrabile ma crudelmente tangibile. Un presentimento che non si manifesta ma che non abbandona. Un desiderio profondo e irrealizzabile. È come se Alfieri fosse sempre deluso dai colori e dalle sfumature di libertà a causa delle sue aspettative pretenziose, ma non riuscisse a smettere di guardarla da lontano, come si guarda un dipinto bellissimo. 

Libertà si lascia guardare, ma non capisce le intenzioni dell’autore, che, con il suo sguardo meditabondo e cupo, appare come maestro severo ed imbronciato. 

È come se essa piuttosto cercasse di accontentare e soddisfare il suo sguardo esigente con sforzi, che egli riterrà in ogni caso insufficienti. Alfieri è incontentabile, ma, allo stesso tempo, pensa che sia Libertà che giochi con i suoi sentimenti e si chiede per quale motivo stia al suo gioco.  Libertà è un personaggio dalle fattezze mitiche e fantastiche, un personaggio proiezione dell’interiorità di Alfieri stesso.  Il loro amarsi e odiarsi reciprocamente non è altro che il risultato di un fraintendimento che mai verrà chiarito. Alfieri è un uomo che persegue i suoi sogni, ma che non si accontenta mai e poi mai di quel che ritiene una loro brutta copia materiale e reale. Libertà è un bel sogno inattuabile, un’opera pregiata ammirata da troppi occhi. Lo scrittore appare come un titano materialmente vinto, ma non spiritualmente domato. Egli, se pur prostrato dalla soverchiante potenza oppressiva ed ingiusta, conserva egualmente il suo contegno di sfida, il suo orgoglio inestinguibile. La sfida è tanto più magnanima, in quanto votata a sicura sconfitta, poiché il potere tirannico è invincibile; ma l’eroe seppur vinto, non è soggiogato interiormente ed affronta senza esitazione il sacrificio e la morte. Alfieri è un titano che non si inginocchia, un uomo intellettualmente libero dalle leggi esterne e considerate ingiuste, ma contemporaneamente prigioniero di se stesso e della sua rettitudine imparziale. Un titano che porta il peso del rancore e della delusione, ma che continua imperterrito il proprio percorso. 

Nei personaggi tragici, descritti da Alfieri, si proietta il sogno di grandezza e aspirazione sovrumana, lo slancio di affermazione dell’io; ma contemporaneamente nelle tragedie si profila l'impossibilità di affermare quella grandezza per i limiti della miseria umana tanto compianti. Così facendo si impone l’inevitabilità della sconfitta, che incombe, che dà, di conseguenza, origine ad un amaro finale. Alfieri tenta in ogni modo di risollevarsi dall’umanità mediocre e vile che lo circonda, pur consapevole di non potersi liberare completamente dal fango in cui è invischiato.

Alfieri, in un certo qual modo, sembra una mia eco nel libro di storia della letteratura: più leggo le pagine con su scritte le sue ideologie, i suoi impeti, le sue lotte e le sue resistenze, più mi sporgo da una finestra, da cui posso vedere analogie immediate. Non è per vanità, solo per curiosa assonanza e per caso curioso.

                                                                                                                       Maria Ricca 

                                                                                                                 IV A Quadriennale

Articolo proposto dal Prof Flavio Nimpo