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260px Orestes Pursued by the Furies by William Adolphe Bouguereau 1862 Google Art Project

“Ho perso il senno, ho perso il senno! Sono oltraggiato e non saldi i precordi! Sursum corda, aiutami, non vedi in quale stato sono? Scroschhhhhh.....grrr, grrr....boom!”

“Eccomi, chi mi chiama, cosa pretendi da me?” Urlo e mi sveglio così, di soprassalto, con un lucore bianco in volto che si specchia nei lembi azzolati del mio piumino verde con foglie d’acanto a guisa di dalmatiche di cotone avorio.

Mi ritrovo sommerso di sudore, madido di gocce indistinte, come se una cascata intera mi avesse travolto e le braccia tese verso il vuoto ad accogliere con gli arti gelidi ed intirizziti il Messaggero di quella straziante invocazione d'aiuto. 

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Già, ma chi era? Solo un sogno, la mia anima concupiscibile vuole tranquillizzarmi, in realtà diffida di ciò che non percepisce con i sensi e desidera rimettersi comoda a dormire. Ma è sveglia, anche l'altra, quella irascibile, che mi spinge, mi strattona ad indagare, ad alzarmi. 

D'improvviso lo schiocco delle redini....è l'Auriga, la mia Anima razionale. Non voglio certo reincarnarmi tra 10.000 anni in un ghiro. Basta, d'accordo, sono in piedi. Voglio reincarnarmi in un filosofo io.

Vicino al mio letto, dritto come una freccia, solo ora scorgo il mio adorato Peggie che mi guarda attonito ed incuriosito. 

Con la testa inclinata come un’ampolla ripiena di ambra pregiata ed i suoi occhioni nocciola mi scruta con tutta l’intelligenza dei burder collie, sembra volermi comunicare che non c’è nessuno nella stanza, è stato solo un brutto sogno. La sua coda, che si muove veloce, spazza ogni timore come un tergicristallo la pioggia dal cruscotto.  

Di scatto guardo l’ora, sono da poco passate le 7:13. Quindi è un sogno del mattino. Mi ghermisce una frase che mio nonno – nel suo giardino di zagare - pronuncia sempre: “Con i sogni del mattino una premonizione ti è vicino.”  

E nonno ha sempre ragione! Quindi mi inarco a ricercare e cogliere tutti i ricordi dell’incubo, come se dovessi sgranare i chicchi cremisi di un melograno maturo.

Intanto l’odore del caffè alla vaniglia mi trasporta in cucina, sembra di calzare i sandali alati di Hermes. Sul canapè in bella vista troneggiano la mia divisa, i calzettoni e le scarpette da calcio. Oggi disputiamo una partita importante, contro il Palmi, ma sì, forse era solo la frenetica attesa dell’agone, che ha approfittato di Orfeo, per fare capolino nei miei pensieri. 

A proposito, meglio che pensi a fare colazione e vestirmi, tra poco passerà il pulmino della squadra e devo ancora finire di preparare il borsone.

Non vedo l’ora di incontrare i miei compagni: nel viaggio gli aedi intoneranno cori e moduli di gioco e, poi, già, come dimenticarlo, Manuel voleva parteciparmi della sua nuova fidanzata, che gli tiene il cuore in una scatola d’argento, bella, preziosa ma così fredda! 

Devo trovare le parole giuste per consolarlo. In fondo durante la partita è quello che faccio: proteggo la porta con lui, sono le mura invalicabili e impenetrabili della difesa e stavolta devo proteggergli anche la ψυχή prima che Aurora ῥοδοδάκτυλος se la porti via.

Appena giunti a destinazione, Mister Catania, il mio Chirone, mi ripete che si tratta di una partita importantissima e nello spogliatoio un dedalo di pensieri sommergono gli umidi e furibondi venti delle raccomandazioni.

All’improvviso Peggie, che mi accompagna sempre, anche in trasferta, scatta e si dirige come una saetta verso un uscio, che prima non avevo notato, seminascosto da una porta adamantina che sembra inghiottirlo. Con uno slancio mi dirigo verso di lui per afferrarlo e l’ultima voce umana che sento prima di entrare nel buio più totale è quella del mio Allenatore, che mi chiama, prolungando l’ultima vocale del mio nome con una serie innumerabile di “i” appuntite e sottili, e mi scaglia contro come la nuvola di frecce dell’esercito persiano di Serse su Leonida “GabrIIIIIIIIIIIIIIIIIII………

Comincio a rotolare verso il vuoto, a precipitare vertiginosamente, vedo distintamente Peggie, che mi è di fianco, ma vola, invece di rovinare come me, e spero, in cuor mio, che almeno lui si salvi.

Infine SPLASH! Mi inghiotte una clochea d’acqua, mi sommerge e, mentre sprofondo, strabuzzo gli occhi, intorno a me pneumatici consunti, materiale di risulta, bottiglie di plastica, scarponi con la punta divelta a spalancarsi verso di me come fauci di un alligatore famelico. È finita! Mi raccomando alla protezione della Santa Vergine, con i gesti rituali della devozione e, quando sono sul punto di dire “Avvocata Nostra”, avverto una forza pari e contraria a quella che mi aveva spinto verso il fondo e verifico empiricamente che Archimede fosse un genio. Prima di emergere, con quel minimo di fiato, che mi resta nei polmoni, spero che, riaffiorato in superficie, troverò il mio Gerone a cingermi il capo con la sua famosa corona d’oro. Ma la speranza mi riservava un serbatoio di sorprese.

Si stagliava sulla costa di una riviera un Gigante composto interamente d’acqua, antropomorfo, che con la testa sfiorava quasi l’Iperuranio: con un braccio arrivava fino allo Stretto di Messina e usava l’altro per cingermi i fianchi e tenermi sollevato; aveva spalle che congiungevano insieme Oriente ed Occidente, per occhi due sfere di lapislazzulo afgano ed una bocca simile ad una faretra. Quel mastodontico organismo emanava un profumo intenso ed atavico di glicine e in trasparenza la sua struttura forgiava un prisma in cui dominavano indaco e viola, che, incrociando i raggi solari, andavano a comporre i sette colori dell’arcobaleno stesso, che gli imbrigliava i lunghi capelli disciolti, intrisi di unguenti di rosa e mirra. La sua folta capigliatura dalla testa penetrava l’elmo e si stendeva fino agli omeri.

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Capii subito che si trattava della personificazione di un fiume, mi trovavo di fronte ad uno dei tremila germani di Calipso e delle Oceanine delle acque salate, sue sorelle nonché delle Naiadi, associate alle acque fresche, e delle Nereidi del Mediterraneo.

La voce del Fiume ora prendeva ad echeggiare fra le onde spumose e gli aranceti presenti sulla riva, che si propagavano quasi a formare quei merletti scintillanti delle lenzuola, che mia nonna, quando ero fanciullo, offriva al sole concupiscente del mezzogiorno, perché, liberandosi dall’acqua, risplendessero di un tono azzurrato e carezzassero le membra di pulito.

Mi venne in mente che anche tutte le gocce del bucato steso ad asciugare all’astro diurno, evaporando, avevano concorso ad alimentare quel fiume e che mia nonna, nolente, aveva cooperato a generare quell’ essere divino che ora contemplavo e che quindi, in fondo, era anche un mio lontano parente; pertanto, potevo non averne paura. 

“Sono Μεταυρος “ - esordì, improvvisamente, “ e sono nato dal versante tirrenico dell’Aspromonte, a 1000 metri di altezza; traggo alimento da sette fiumi, e segno il confine tra Palmi e Gioia Tauro. Percorro ben 27 km prima di giungere al mare. Oggi gli umani si riferiscono a me come Petrace ma con il mio nome antico, invece, mi citano Catone, Plinio ed Ecate Millesio.

I mortali celebravano sacrifici in mio onore, si gettavano supplici in adorazione, pregando che potessi elargire loro la guarigione che mi chiedevano. 

Non esitavano ad offrirmi doni e ogni genere di libagione….già, quegli ingrati.

E guardami ora, invece. Ciò che domina è la trascuratezza, la noncuranza, l’inquinamento e la sporcizia. La rabbia che lo avvolse, scuotendolo, lo indusse a generare un violento tsunami, un’onda alta 100 metri che avvolse la terra tutto intorno, travolgendo quanto incontrava. Infine, pentitosi, soffiò con il suo alito caldo e l’acqua divenne vapore denso, per, poi, tornare a lui come pioggia che, rigandogli il volto affilato, distillava lacrime, di dolore, di delusione, di abbandono.

Furono pochi secondi, l’ἀρετή e l’orgoglio di quella figura fiera ed altera gli appartenevano di nuovo e ritornò compus sui. Indi con il capo mi indicò due giovani che si trovavano ai suoi lati. Quello a destra aveva un’aureola ed era circondato da cavalli; quello a sinistra, invece, brandiva con la destra una spada.

A quel punto la maestosa figura passò alle presentazioni.

Egli è San Fantino: fu un giovane guardiano di cavalli di un patrizio Romano, Balsamio. Ebbe il dono della fede, abbracciando la religione cristiana ma in segreto, per evitare di essere perseguitato, e con ogni mezzo si adoperò per ausiliare i poveri, e proprio con i cavalli che custodiva triturava, di nascosto, il grano di quei contadini che da quel povero alimento traevano il loro unico sostentamento.

Venne, però, il giorno in cui fu scoperto da Balsamio e fuggì, ma la sua corsa si arrestò in un primo momento a causa mia, per le mie acque torbide ed impetuose. Fantino compì un miracolo e, levando in alto una preghiera al suo Dio misericordioso, con il frustino fermò le mie acque e vi passò al di sopra “come fosse terra ferma”.

In realtà i miracoli furono due, perché di fronte a quell’evento prodigioso perfino Balsamio comprese il suo errore ed oltre a chiedere perdono si convertì al Cristianesimo.

Capisci, dunque, chi sono io? Ora, rispondi, sai tu indicarmi chi è l’altro giovane?- mi chiese.

Mi bastò un attimo, prima che ordinassi reminescenze e sensazioni, che si affollavano nel mio cuoricino, messo alla prova da tante emozioni, che marciavano come falangi macedoni. 

Certo, lo so. Declamai. Egli è senza dubbio Oreste, il figlio di Agamennone e Clitemnestra, sciagurata. Quindi fratello di Ifigenia, il cui sacrificio la sorella di Elena non ha mai perdonato al suo sposo tanto da ucciderlo insieme ad Egisto. Ma consaguineo anche di Elettra, che con la sua lungimiranza lo salvò conducendolo presso lo zio, nella Focide, ove crebbe con Pilade, legati da sempiterna amicizia. Divenuto adulto, Oreste si recò a Delfi e, quando l’oracolo gli vaticinò di uccidere la madre, egli fece ritorno a Micene con il suo amico e decise di vendicare l’assassinio del padre, commettendo a sua volta un delitto e macchiandosi di matricidio. 

Ora, Μεταυρος , tu sai che vi sono diverse versioni sugli eventi che si verificarono in seguito. E di certo la verità io ora non è necessario che la chieda al diretto interessato, perché è la sua stessa presenza in loco che conferma Eschilo ed il suo componimento. Infatti egli sostiene che a cagione del suo crimine, Oreste venne reso pazzo dalle Erinni che lo assalirono e che vennero tenute lontane e scacciate solo grazie all’arco donatogli da Apollo. 

Sempre secondo Eschilo, vi fu un processo ad Atene dove il Lossia (che sarebbe stato l'ispiratore dell'assassinio dei due amanti) si erse a difensore di Oreste contro le Erinni che lo accusavano. Atena stessa instaurò un istituto per tutto il tempo avvenire, l'Areopago, presieduto dalla dea, che di fronte alla parità dei voti dei giurati salvò Oreste, votando a suo favore, condividendo la tesi dell’Efebo che la morte del padre superasse di importanza quella della genitrice.

Le Furie si accesero di sdegno ma Atena le convinse a diventare Eumenidi.

Non v’era ancora pace per Oreste che, su consiglio di Apollo, si diresse nella terra dei Tauri, nel Chersoneso, nell’intento di rubare l'antica statua lignea di Artemide e, infine, raggiungere un fiume formato da sette sorgenti. 

Le Moire erano in agguato e Oreste venne catturato nell’atto di compiere il furto e condannato ad essere sacrificato ad Artemide. 

Ancora una volta la sua salvezza giunse dal proprio sangue, perché la sacerdotessa del tempio altri non era che Ifigenia scampata al sacrificio per volere della dea, che servendosi di uno στρατήγημα fuggì con il fratello e Pilade giungendo, infine, ivi, nell'Ausonia ( la denominazione primigenia della Piana).

In questo luogo trovò le tue acque, Μεταυρος , vi si immerse e riacquistò il senno.

Quindi, eri tu, Oreste, che sei venuto da me in sonno per conto di Μεταυρος  e gridavi che vi fu un tempo in cui avevi perduto il senno e mi chiedevi di aiutare proprio quel fiume che ti aveva guarito facendoti rinsavire?

Sì, è proprio così. Spetta a te, ora, assentì con gravità il principe argivo. 

Tocca a te, ora difendere Μεταυρος  dai potenti della cattiva politica, dagli usurpatori dei sogni dei Calabresi, dai carcerieri della natura che abusano della propria posizione per ingrassare il loro pingue adipe e sono dimentichi del patrimonio culturale che appartiene agli Ausoni, alla progenie della Terra e a tutti gli esseri umani degni di questo nome.

Ora, io, Μεταυρος  e San Fantino ti chiediamo di chiamare a raccolta tutti gli eroi che oggi popolano quella che, un tempo, fu la gloriosa ed invitta Magna Grecia, di vendicare il delitto di quanti deturpano il nostro suolo, le nostre coste, i nostri mari, non con la violenza che, come vedi tanti mali produce, non con l’omertà, che ne uccide più della spada un tempo insanguinata e stringe la mia mano, ma con la parola, con l’esempio, con l’educazione alla filosofia ed all’εὐνομία, al buon governo. Ricorri al tuo Aeropago e chiama a giudizio i colpevoli ma soprattutto agisci, perché riparino i propri errori convertendoli come fece San Fantino con Basimio.

Indi mi consegnò la cetra, l’arco e le frecce scintillanti di Apollo, affinché divenissi il peana dei mali descritti. Cercai vicino a me Peggie, ma non lo trovavo più, almeno non nella sua forma originaria. 

In forza di una metamorfosi aveva assunto le sembianze di Pegaso e mi assicurava che mi avrebbe seguito dal cielo.

Avvertii immantinente una vigoria soprannaturale e cominciai a correre traversando l’intero globo terrestre fino all’estremo Nord, oltre il Circolo Polare, fra gli Iperborei. Ovunque si distingueva il ronzio dell’arco d’argento ed ogni freccia alata, che scagliavo, era latrice unicamente delle mie parole di conversione. Nessuna ferita ma la persuasione senza mai risparmiarmi. Quando suonavo la cetra, ulivi secolari principiavano a muoversi, capeggiati da ITALUS, l’higlander vegetale, alto più di 10 mt e con un diametro di 160 cm seguito dalle piante autoctone, che giungevano dallo Stretto al Pollino, convergendo nell’Ausonia fino a formare un magnificente mosaico policromatico. Accorsero in breve tempo tutti gli animali provenienti dai Parchi Nazionali del Pollino, della Sila e dell’Aspromonte ed il Parco regionale delle Serre. I frutteti, gli oliveti, con il verde argentato delle loro foglie ed i grandi tronchi intrecciati si facevano largo tra i filoni di viti e la processione di spighe pronte per la mietitura. E con essi uomini e donne di ogni età e di tutti i continenti, uniti da vincoli di συμμαχία, liberando i fondali e le sponde del fiume dagli orpelli che lo avevano oltraggiato e devastato. Indi spingendosi fino a tutte le acque sorgive, i mari e gli oceani, i boschi e le foreste del pianeta, in marcia come opliti.

Sirti di rami di mirto incoronavano Μεταυρος  e gli riassegnavano il suo rango grazie agli autori di res gestae memorabili che, sconfiggendo gli antieroi, avevano divelto la strada all’incedere del Fato, con il lavoro alacre ed incessante di un paziente siniscalco.

Oreste e San Fantino corsero ad abbracciarmi e la colonna d’acqua in cui si era incarnato il Fiume mi sollevò ancora una volta ed accostandomi al suo immenso torace mi ripeteva “Ricorda che paura non vinca il tuo cuore”.

Insieme abbiamo vinto la partita della vita, non dimenticarti mai di noi, non lasciare che la memoria di oggi possa trascolorare i giorni che verranno. 

Ora torna ed occupati della tua sfida calcistica, “festina lente”. 

In quell’istante trasalii. Avevo dimenticato completamente il match! Erano trascorse ore, si erano susseguiti giorni, forse anni. Ma Μεταυρος  mi sorrise complice, generò un arco di microparticelle idriche a guisa di ingresso e mi fece segno di attraversarlo. Mi girai a guardarli per l’ultima volta. 

L’intero esercito degli Achei nell’Iliade non avrebbe potuto superarli. -Vi porterò sempre con me- masticai un grido e mi gettai oltre lo sferisterio che si era aperto. 

Appena ebbi scavalcato quel confine, mi trovai di fronte Mister Catania, che mulinava nell’aria le sue braccia, per descrivere le nostre posizioni in difesa, attacco e centrocampo. 

In quel momento avrei preferito decifrare una scitala spartana. Pensavo mi assegnasse come punizione per la mia assenza le 12 fatiche o mi inviasse a recuperare il vello d’oro o consegnargli la testa di Medusa. Invece mi accolse con un sorriso grande e profondo come il suo cuore. Tentai con degnazione di giustificarmi per il ritardo ma mi fermò subito, con un lampo di perplessità, rassicurandomi che non erano trascorsi più di 20 secondi, da quando ero entrato ed uscito da quella porta, per recuperare Peggie, che aveva ripreso il suo solito aspetto e mi faceva le feste. 

Quindi uscimmo dallo spogliatoio ed entrammo in campo, l’aria agrumata degli aranceti e l’aroma del bosco prendevano prepotentemente posto fra le mie narici. Scrutai i miei compagni, i loro volti, erano anch’essi dei Mirmidoni.

Ci abbracciammo in cerchio, esortandoci a vicenda. Quando l’arbitro fischiò l’inizio della partita, cominciai subito a correre. Non avevo più i doni di Apollo Licio, ma non mi aveva abbandonato la vis che trasforma gli uomini in Titani. “Vola”- incitai Peggie e proclamai:

“AUDAX VINCIT SEMPER”

GABRIELE GAROFALO, CLASSE II, SEZIONE E - ORDINAMENTO

Componimento proposto dal Prof. Flavio Nimpo

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