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DA VIRGILIO  A  CESARE PAVESE 

Laocoonte

 <<Io sono come Laocoonte: mi inghirlando artisticamente coi serpenti e mi faccio ammirare; poi ogni tanto mi accorgo dello stato in cui sono e allora scrollo i serpenti; gli tiro la coda, e loro strizzano e mordono. È un gioco che dura da vent’anni. Comincio ad averne abbastanza>> (Cesare Pavese, 1950).

Il noto poeta e scrittore delle Langhe Cesare Pavese, poco prima di morire, scrive questo breve ma intenso passo nel quale  si paragona a un personaggio emblematico, presente nell’Eneide: Laocoonte. Sacerdote di Apollo e fratello di Anchise, contro la volontà di Apollo egli si era sposato e aveva avuto anche dei figli. Al momento dell’abbandono del cavallo di Troia sulla spiaggia, egli aveva provato, inoltre, a non farlo entrare in città, scagliando la sua lancia contro la pancia dell’animale di legno, che fece risuonare. Gli dei, adirati e sdegnati per il suo gesto irrispettoso e meschino, avevano deciso di punirlo, mandando degli enormi serpenti su quelle spiagge, per uccidere il sacerdote e i suoi due figli. La fine brutale, orribile e cruenta dei tre aveva spaventato i Troiani, che avevano visto l’accaduto come un sacrificio voluto dagli dei. 

In  Laocoonte, figura apparentemente sfacciata e insolente, Pavese riconosce il suo stato e il suo modo di vivere. In entrambi, infatti, vi sono l’alternanza e la contrapposizione continua tra vita e morte. Un dolore interiore o esteriore esibito in maniera teatrale e scenografica ma, allo stesso tempo, profondamente concreto,  reale e opprimente. La battaglia continua  tra la vita e la morte, la perenne sopportazione del malessere e del dolore, costringono alla resa, alla perdita della speranza e della fiducia, al sopraggiungere della disperazione più cupa. Lottare ogni giorno stanca anche le persone apparentemente più solide e forti, il sorpasso dei limiti del possibile e  dell’ “umano” è purtroppo sinonimo di sconfitta e fallimento. Entrambi i personaggi cadono e si fanno sopraffare dagli eventi, dal destino, dall’oggi e dall’ora, sfiniti, senza forze. La corda, ormai logorata, si spezza, lasciando spazio a un vuoto incolmabile, la morte. Le lacrime, cariche di energia e vitalità, terminano, gli occhi si chiudono, i pensieri e le emozioni scemano e si placano e con il cuore si ferma anche l’essenza dell’animo. Nella scena orrenda, in cui Laocoonte lotta contro le creature mostruose, i due serpenti rappresentano un simbolo molto importante che li accomuna anche allo stesso cavallo di Troia. Entrambi racchiudono il senso di “machina fatalis”, mortale artificio che avanza quasi meccanicamente verso il suo obiettivo, inarrestabile e fatale, che agisce con  perfezione e cura. I serpenti, quindi, sono l’incarnazione della punizione divina, della vendetta e della mancanza di compassione verso l’atteggiamento sbagliato di Laocoonte che, senza volerlo, sfida  gli dei. Il sacerdote viene sacrificato brutalmente, come quando viene ucciso un toro, troppo agitato e irrequieto. Nonostante il toro continui a difendersi con tutte le sue energie, non sarà mai abbastanza, il suo destino ormai è segnato, inesorabile. Laocoonte deve la propria notorietà ad una scultura antichissima scolpita da Aghisandro, Polidoro e Atanadoro. In questa imponente rappresentazione in marmo viene raffigurato con toccante sentimento il momento in cui i serpenti stritolano nelle loro spire il troiano con i suoi figli. In questa statua vi è, quindi, l’ostentazione del  dolore fisico e di un’accanita ribellione verso un destino crudele ed ingiusto.

Il resto è silenzio, tanto silenzio, solo silenzio... 

                                                                                                                             Simone Picarelli, II E

Articolo inviato dal Prof. Flavio Nimpo