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Basta la conoscenza per parlare a sé stessi?

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La conoscenza è un’arte. Passa attraverso l’io consumato, ricostituendo l’inconsistenza causata dai propri drammi. È, quindi, solo un mero ripiego? Una seconda scelta? Qualcosa a cui ci si dedica solo perché non si ha altro? Se fossimo davvero felici e non avessimo bisogno di niente, coltiveremmo in ogni caso quest’arte? O, al contrario, forse è il miele che rende l’esistenza più dolce, il miele che attutisce il mal di gola?

Potrebbe essere il collante che unisce la forma più pura del nostro io con il freddo universo circostante. Potrebbe quindi essere l’unica cosa che ci tiene insieme e non ci fa ridurre in frammenti. Potrebbe essere ciò che amalgama con note zuccherine l’esistenza umana. In fin dei conti l’uomo non può far a meno di imparare: anche senza la sua volontà, impara lo stesso. Impara dal suo stesso vissuto, impara dagli altri, impara dalla natura, dalla malinconica nostalgia o, forse, per alcuni dalla nostalgia della malinconia, essendo essa un sentimento che fa ultimamente sfondo alla vita, su cui si stratifica tutto il resto, delle giornate di pioggia o della spensierata leggerezza di quelle di sole. Alcuni imparano dalla notte, dalla luna, dalla nebbia che chiama a sé lo spirito e rende ciò che è all’infuori di essa astratto e poco nitido, trasformandosi in una dimensione solida e concreta. Alcuni imparano dal giorno, dalle bianche nuvole, che al tramonto si tingono di caldi colori rassicuranti e destano nell’animo sogni e speranze, rendendo anche il più analitico un romantico poeta. L’uomo, perciò, non si può nemmeno sottrarre alla conoscenza, perché è essa stessa che in ogni occasione raggiunge l’uomo. È l’unica certezza vincolante oltre la morte e la nascita. C’è chi la cerca esplicitamente con lo studio e chi la raggiunge in maniera trasversale, ma come ho già detto, entra sempre in contatto con l’uomo. È, infatti, problema che perseguita l’umanità conoscere sé stessi. Riusciamo a imparare molto per quanto riguarda il mondo esterno, ma è difficile conoscere fino in fondo l’abisso interiore. Forse è anche per questo che si passano “notti insonni ad ascoltare la malattia che prende le tue vene”. 

Finché l’uomo non conoscerà anche sé stesso, non sarà in grado di definire la radice dei suoi mali. E, se nemmeno ci prova, col trascorrere del tempo sarà sempre più corrotto, più acido, più apatico, perché la sua malattia si è impossessata della sua persona e non gli lascia più terreno per vivere. 

“A volte l’uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza” (Dostoevskij), forse è proprio questo l’uomo che dà ascolto ai lamenti dell’anima e non cerca di zittirli, anzi decide di “starsene da solo in una camera” e non scadere nel divertissement pascaliano. Citando proprio Pascal: «Tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa, dal non sapere starsene da soli in una camera». Perché l’uomo che non vuole conoscere sé stesso viene intimidito e quasi ustionato dai suoi mali. In fin dei conti, essendo l’arte della conoscenza inevitabile e necessaria, quest’uomo sta andando anche contro natura e, forse, è proprio per questo motivo che soffre. La sua morte arriverà ancor prima della sua morte fisica, perdendo sé stesso o generando odio su odio come i personaggi delle tragedie di Seneca. Perde sé stesso ma, in realtà, non si è mai appartenuto. Ma chi è l’uomo tanto virtuoso che riesce a sostenere l’indagine e la ricerca nel suo abisso? Forse gli artisti, i poeti, i filosofi o chiunque apprezzi imparare e sappia dare ascolto alle sue emozioni. Anche l’arte è un mezzo per conoscere sé stessi. Quando ci si commuove per un quadro, una scultura, una poesia fino a provare una strana nostalgia, ciò accade, forse perché ci sentiamo collegati a quella forma d’arte. Gli artisti sfogano ciò che hanno dentro proprio tramite essa: è la loro via di fuga. Perciò l’uomo potrebbe casualmente ritrovarsi di fronte a sé stesso e lo stato di commozione che genera pensieri, che quotidianamente non compie, potrebbe mostrarci la nostra purezza, facendo riaffiorare sul viso la nostra anima. Il corpo diventa il ponte di una nave in un mare in tempesta, su cui si riversano le onde burrascose impazienti di lavare il legno stantio, su cui hanno camminato tante vite inconsapevoli del loro incontro. Ci suggestioniamo e diventiamo altri, o forse semplicemente ritorniamo noi stessi, mandando via l’estraneo che vive la nostra vita tutti i giorni. Riusciamo così a prendere un caffè con noi stessi, chiacchierando del più e del meno, come si fa le prime volte che si incontra e si conosce qualcuno. O riusciamo a prendere un caffè stesso con la nostra vita, forse in segno di riappacificazione o forse per approfondire il rapporto. 

Com’è affascinante l’arte della conoscenza! Forse un giorno l’uomo capirà effettivamente la sua importanza e il suo significato.

 

                                                                                      Martina Giuliani, IV A QUADR

        Testo proposto dal Prof. Flavio Nimpo

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