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IL TRAGICO SENTIRE DELL'UOMO

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La vita dell’uomo è scandita dalla sofferenza. Non si può evitare il dolore, perché esso è un elemento intrinseco nell’esistenza stessa. Non vi è vita senza sofferenza. Per i Greci il dolore è connaturato nell’uomo, è un elemento che non può essere eliminato dalla vita, ma, ad ogni modo, il dolore non sovrasta mai l’eroe tragico, perché egli si batte fino allo stremo delle sue forze, fino al proprio annientamento, anche quando è chiara l’inutilità della resistenza.

Da ciò, infatti, si origina la tragedia, che è un aperto scontro tra la libertà dell’uomo e l’ineluttabilità del suo destino. Il destino per l’uomo greco è il contrappeso alla libertà o, meglio, è la capacità di resistere alla sua ineluttabilità. I Greci lo sapevano bene che la vita è sofferenza, ed è questa loro consapevolezza ad aver generato quella che viene considerata la loro più grande invenzione insieme alla democrazia: la tragedia. Questo tipo di rappresentazione teatrale, pur avendo avuto, nel corso della storia, momenti di grande fioritura, come nell’età elisabettiana grazie a Shakespeare, non raggiunse mai lo splendore che ebbe nell’antica Grecia. Neanche i Latini riuscirono ad emulare il talento greco (le uniche tragedie romane di un certo rilievo sono, difatti, esclusivamente di Seneca); d’altronde, ci si può aspettare che un popolo, solito, per libero svago, ad assistere a cruentissime e reali lotte al Colosseo, si interessi alla famosa catarsi nello spettacolo teatrale? I Greci, ricordiamo, furono i primi a decantare le varie sfumature dell’amore, la bellezza della natura e la fugacità dell’esistenza; proprio da tale sensibilità nasce la tragedia, la quale è molto più di un’opera teatrale. Essa è lo specchio della vita stessa! L’eroe tragico è uno, ma il suo dolore e la sua gioia sono quelli di tutta l’umanità, la sua sofferenza e la sua crescita morale sono quelle che tutti possono sperimentare, il suo destino e il suo cuore sono, insomma, quelli di ogni uomo. La tragedia, senza veli né fronzoli, mette l’uomo faccia a faccia con i suoi sentimenti più oscuri e con i lati più perversi dell’animo, che il moralista moderno negherà sempre di provare: dalle passioni proibite (Ippolito) alle vendette più atroci (Agamennone-Medea). Non sorprende, infatti, che un intellettuale scomodo come Pier Paolo Pasolini, regista di pellicole considerate tuttora tra le più enigmaticamente controverse mai create, abbia riadattato in film due delle più note (e forse più devastanti) tragedie classiche: Edipo Re e Medea. Ma non bisogna erroneamente attribuire alla tragedia ciò che oggi viene definita “pornografia del dolore”, ovvero il gusto per una bellezza martoriata nella sua sofferenza, al limite del morboso, poiché non si tratta affatto di questo. I sentimenti ripugnanti dei protagonisti ed il loro estremo dolore non sono un mero feticcio, ma il motore stesso dell’azione, il centro delle opere, nella loro brutalità, che non rinuncia all’introspezione psicologica. L’interiorità dei personaggi, sviscerata nel profondo, è il seme della psicoanalisi, senza il quale Freud non avrebbe potuto formulare il complesso di Edipo o il complesso di Elettra o quello di Medea. Rammentiamo, inoltre, che sulla scena non vi era una sola goccia di sangue, ed il genio greco spicca anche in questo: non ne necessitava... La maestria dei Greci stava nello scuotere lo spettatore semplicemente con le parole e la recitazione. Il protagonista tragico è esattamente colui che non riesce a liberarsi dal dissidio che vive, per cui giunge, in un crescendo di tensione, all’atto estremo, spesso l’acme dell’opera stessa. Ciò che le figure tragiche, dunque, vivono passivamente è il destino, che con le sue mani dalle dita affusolate le orchestra dall’alto come burattini. La sorte, elemento onnipresente, ha valore ambivalente in base al tragediografo di riferimento: può essere inafferrabile, cattiva, qualcosa da accettare senza cercare di comprenderla o semplicemente il senso stesso della vita umana. Ma una cosa è certa: dal destino non si scappa. Tutti i personaggi che tentano di opporsi finiscono nelle sue fauci ancora più drammaticamente. Per i contemporanei potrebbe essere una visione pressoché pessimistica, ma forse in quell’ “assecondare” il fato e non remarci contro non vi era un atteggiamento di arrendevolezza difronte alle sciagure, quanto più un approccio filosofico ad esse, degno della cultura greca, che oggi riecheggia nel ricercato e popolare pensiero Zen: proprio perché le difficoltà sono inevitabili durante la nostra esistenza, non ha senso cercare di evitarle. E, forse, è più confortante l’idea di essere vittime di una sorte astratta e imperscrutabile, casuale o scritta che sia, piuttosto che di un fantomaticamente amorevole Dio.    

Beatrice BERARDELLI & Elena DE ROSA, classe III QUADR

 

Articolo inviato dalla prof.ssa Maria Felicita Mazzuca.