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OMAGGIO AL PROF. LEOPOLDO CONFORTI. 

2017 leopoldo conforti

«Pentola bolli»…

Un po’ come la cicatrice dell’antivaiolosa, le cantilene per apprendere più facilmente la lettura metrica fanno da spartiacque anagrafico. Ma, più dell’antivaiolosa, queste nenie separano un mondo ancora figlio dei Greci da un universo a tinte a volte distopiche che sembra avviato all’oblio della tradizione di cui siamo figli e custodi.

Il mio ricordo di Leopoldo Conforti proviene da una terra di nessuno in cui non era per me «Il Professore», né «L’Amico di lungo corso», né «Un Parente». Lo conosco praticamente da quando sono nata, ma la sua presenza mi è arrivata attraverso la mediazione di mia zia, Luigia de Theo, una donna (e una Professoressa) che egli ha romanticamente amato, pur non proclamandosi un romantico.

E dunque, io non l’ho vissuto come un professore temibile, né l’ho amato in ragione di un vincolo naturale: l’ho da sempre associato a mia zia, e per un certo verso loro erano, per me, inseparabili. Ho intrattenuto con lui un rapporto familiare, spesso sfacciato e poco rispettoso, come è tipico dei bambini che non conoscono ancora la differenza fra il tu e il lei e che intravedono nel compagno di vita della propria zia una specie di zio, o di secondo padre.

Vivendo lontani, l’ho visto poco, soprattutto quando, diventata grande, sono iniziate le mille quotidiane schiavitù del lavoro che hanno diradato i miei viaggi a Cosenza.

Eppure, gli sparsi frammenti che conservo di lui hanno preso nel tempo la solidità di un’immagine particolare, forse diversa da quelle prodotte dalla costanza di una relazione frequente.

Leopoldo aveva una voce autorevole e a tratti minacciosa, ma, quando ero piccola e quando poi sono diventata un’adolescente insopportabile in quel modo peculiare in cui sanno esserlo solo i giovani, mi ha coccolata. Allora non lo capivo, ma l’ho avvertito negli anni della maturità, quando la memoria mi ha restituito i fotogrammi del nostro rapporto. Quando ero ospite di mia zia, non c’era giorno in cui non arrivasse con gelati o cioccolatini o cibi ˗ lui che era strenuo sacerdote dei carnivori ˗ adatti a una novella ma caparbia vegetariana.

Quando, in un ormai lontanissimo inverno dei primi anni Novanta, mi trasferii a casa di mia zia per accelerare la preparazione dell’esame di Letteratura Latina e quando, poco dopo, avviai a Cosenza lo studio del Greco ˗ lingua per me lontana e foriera di incubi notturni, avendo frequentato il Liceo Scientifico ma avendo scelto Lettere Classiche ˗, fu Leopoldo a insegnarmi qualche filastrocca mnemonica, mentre zia, con maggior rigore filologico, mi iniziava alla tecnica della scansione.

Mi ha portato a mangiare in bellissimi posti sulle montagne circostanti, perché, diceva, «voi giovani dovete essere iniziati alla cucina». Amava stracciare a scopa, la sera dopo cena, il mio fidanzato, anche lui avvolto in questo legame simil-familiare.

Ho ricevuto da lui un regalo il giorno della laurea.

Quando zia è morta, quattro anni fa, abbiamo mantenuto l’abitudine di qualche lunga anche se sporadica telefonata, in cui ai ricordi malinconici dell’amata si mescolavano racconti, mille volte sentiti, delle avventure scolastiche e recriminazioni, da me condivise, contro un mondo che si sta colpevolmente lasciando alle spalle i Greci e i Latini. Leopoldo non dava speranze al Greco e nutriva sospetti anche sulla sopravvivenza del Latino. Ne prendeva pragmaticamente atto come di un fatto; eppure ne soffriva, e il suo scrivere rappresentava una strategia tutta personale di resistenza ai fatti. 

Contemporaneo degli Antichi e di Leopardi più che classicista, faceva riemergere dalle tombe le loro voci miscelandole alla Canzone napoletana, di cui era amante ed esperto, e ai paesaggi della Cosenza albanese che meglio conosceva, convinto che tali esperienze letterarie e di vita condividessero un comune codice espressivo che spettava alla scrittura svelare.

Ogni telefonata si concludeva, ultimamente, con la medesima constatazione: «Lei non c’è». Questo Vegliardo amante dell’Antico scopriva al tramonto che nessuna parola appresa o scritta valeva la possibilità di trattenere ancora qualche istante la sua compagna di viaggio sulla soglia dell’Essere.

Simili briciole, che non restituiscono una vita, mi occorrono solo per aggiungere, a ritratti certamente più completi che sono stati e saranno tracciati, una particolare pennellata: Leopoldo era l’ultimo rappresentante di una stirpe ormai quasi estinta che coniugava all’asprezza dei Bruzi ˗ e all’eccentricità culturale delle minoranze albanesi ˗ la tenera morbidezza di un cuore romantico che aveva sposato Catullo alla Canzone napoletana e che avrebbe ceduto tutto il sapere in cambio di una vittoria seppur momentanea sulla Morte.

Che la Terra ora gravi con leggerezza su Entrambi.

Napoli, 4 agosto 2020    

                                                                                                                         Claudia Maggi

 
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