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Esame di maturità 2022: prove scritte sì o prove scritte no? 

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Le polemiche degli ultimi giorni  ci pongono davanti ad un interrogativo quanto mai ostico, spigoloso, da non sottovalutare, che necessita di un’urgente risposta capace di proporre una valida soluzione per ovviare al problema.

In seno all’articolo pubblicato su “La Repubblica” dell'08 novembre 2021, Paolo Di Paolo, scagliandosi contro la petizione, firmata da oltre trentaduemila utenti su “change.org”, volta a sostenere l’eliminazione della prova scritta per i neo-maturandi, si è espresso nei seguenti termini: “La presenza dello scritto mi pare inderogabile, a maggior ragione per quanto riguarda la prova di italiano, il vecchio tema, proposto in questi anni in forme differenti”. La sua posizione è chiara ed evidente: egli, pur riconoscendo valide e pur condividendo almeno in parte le motivazioni elencate dalla petizione (centrate più che altro sui disagi causati dalla didattica a distanza e sul confronto con i maturandi degli anni 2020 e 2021, esentati dagli scritti), ribadisce la necessità di riadottare “parametri di valutazione davvero qualificanti” e sottolinea l’indiscutibile ed inestimabile valore da conferire alla scrittura. A tal proposito, allude persino al protagonista del romanzo manzoniano, Renzo, al fine di offrire ai suoi lettori un chiaro “exemplum” di quanto la cultura sia indispensabile per non essere schiacciati e soggiogati da alcun “azzeccagarbugli”. 

La cultura rende liberi: quante volte ci è stata ripetuta tale massima inattaccabile, chiara esemplificazione del principio secondo cui, solo accrescendo il proprio bagaglio culturale, riusciremo a pensare con la nostra testa, a volare con le nostre ali spiegate e a liberarci dai condizionamenti di chi, traendo forza dall’ignoranza popolare imperante, ci obbliga a piegare il capo. Ebbene, pare che ultimamente la cultura sia stata indicibilmente svalutata e sminuita. 

La tesi esposta da Paolo Di Paolo è pienamente condivisibile su tutti i fronti; non dobbiamo dimenticare, per giunta, che l’importanza esercitata dalla parola sulla mente umana venne percepita in quanto tale sin dall’antichità classica. La chiarezza di pensiero, la capacità di saperlo esporre e l’ingegnosità, sconfinante talvolta nell’artificio, di riuscire a metterlo per iscritto, dando forma e concretezza a un fiume di riflessioni personali, erano considerati “doni divini”, al pari della forza e della virtù.

Tornando alla problematica legata al “caso maturità”, sicuramente aver trascorso quasi due anni scolastici rintanati nelle proprie stanze, privi di stimoli e costretti a seguire lunghe ed interminabili ore di lezione dinanzi allo schermo di un PC, non ha giovato agli studenti, i quali necessiterebbero di un tempo “riabilitativo” per poter nuovamente familiarizzare con interrogazioni vis a vis col docente e compiti scritti in classe. 

Ma perché la prova scritta, concepita quasi come un “esame terroristico”, incute più timore del colloquio orale? Pensiamo per un istante a quali potrebbero essere i risultati di una seconda prova (la cosiddetta “prova d’indirizzo”) svolta da ragazzi e ragazze non più abituati a tradurre il greco e il latino da quasi due anni, o a svolgere complessi esercizi di matematica e fisica: ne deriverebbe un vero e proprio disastro, motivo di penalizzazione per gli studenti, di umiliazione per i docenti e di vergogna per l’intero sistema scolastico italiano. Come scriveva lo stesso Valleio Patercolo, “ciò che non è destinato a progredire, perisce”. Il mancato esercizio, che da costante e continui è divenuto suppergiù assente, ha avuto le sue disastrose conseguenze. 

Con ciò, tuttavia, non si intende che l’esame di maturità debba presentare e preservare tale modalità anche per gli anni a venire: è opportuno che il tutto ritorni ad essere ciò che era prima della fatidica pandemia, piombata come un fulmine a ciel sereno nella nostra quotidianità, ma a tempo debito, senza fretta, al fine di ottenere riscontri il più gratificanti possibili. 

Per quanto riguarda, invece, la prima prova (il buon caro e vecchio tema di italiano), il discorso e le argomentazioni da condurre in merito si discostano in modo abissale dalle precedenti: si tratta di due ragionamenti completamente differenti, agli antipodi. Alla luce degli stravolgimenti vissuti durante la pandemia e delle singole personali esperienze di ciascuno, bisognerebbe ricorrere a un valido compromesso, sospendendo momentaneamente le prove di indirizzo e mantenendo inalterato lo scritto di italiano, sacrosanto ed intoccabile. Come constata lo stesso Paolo Di Paolo, “se scrivere fa paura, c’è un problema”. È quantomai necessario scuotere gli animi dei giovani, maturandi o meno, a prescindere dall’imminente esame di stato, evitare che essi cedano all’ozio, adagiandosi sugli allori e rifugiandosi nella loro “comfort zone”, aprire loro gli occhi affinché si rendano conto di quanto importante sia saper scrivere. 

È pur vero che, dopo un percorso di studi lungo cinque anni, il corpo docenti ha avuto modo di conoscere a fondo le capacità di ogni singolo studente, il cui valore non dovrebbe assolutamente esser ricondotto a un voto, ad uno sterile numero. Tuttavia, il fatto che la petizione stessa, contraria al ripristino delle prove scritte, sia intrisa di una moltitudine di aberranti errori ortografici e di una serie di imprecisioni sintattiche e lessicali, - come sottolinea Eraldo Affinati nel suo articolo intitolato “Saper scrivere, saper scegliere” - (Avvenire, 9 novembre), lascia di che pensare: una parte consistente della popolazione non ha idea di come si scriva correttamente un testo coerente, coeso e funzionale. 

“La fretta domina. La superficialità impera. Le verifiche vengono meno. Chi scrive in modo scorretto, legge poco e pensa ancora meno” scrive Affinati, compendiando in poche righe un discorso dal peso sicuramente non indifferente. L’arte del saper scrivere bene è una competenza necessaria all’individuo – qualsiasi contestazione o opposizione a ciò sarebbe facilmente demolibile – e riveste un’importanza primaria, universalmente riconosciuta, nella vita di ciascuno. Si tratta di un dono che ciascun essere umano riceve sin dalla nascita ma che pochi hanno la premura e l’accortezza di coltivare; un dono, un’abilità applicabile in qualsiasi ambito, dalla scuola all’università, dall’ambiente lavorativo alle scaramucce quotidiane, dalla sfera intima e privata a quella dei rapporti interpersonali. 

È scioccante, a tratti terrificanti, ritrovarsi dinanzi a un individuo che, penna in mano, continui a fissare stranito e disorientato il foglio bianco, senza sapere da dove cominciare, quasi come se la sua mente non fosse animata da un impetuoso e caotico flusso di pensieri, di riflessioni bisognose di esser messe per iscritto. Noi esseri umani non siamo dei meri contenitori vuoti, in attesa di essere riempiti: al nostro interno custodiamo un universo immenso in attesa di esser tirato fuori come nostra personalissima espressione. Scrivere è il modo migliore per adempiere a tale innata ed intrinseca necessità: scrivere equivale a lasciare una traccia evidente del proprio passaggio, un segno tangibile della propria presenza, della propria identità, un modo per comunicare agli altri, ma in primis a noi stessi, ciò che la nostra anima sente e preserva. 

Adriana Rende, V E ordinamento

Liceo Classico B. Telesio

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