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 LINGUA, LETTERATURA E SOCIETÀ: COME SI DIFFONDE IL SESSISMO

il sessismo nella lingua italiana cover

Esiodo nella Teogonia scrive: “(…) Di lei (Pandora) infatti è la stirpe nefasta e la razza delle donne che, sciagura grande per i mortali, fra gli uomini hanno dimora”. Senofonte riporta che la donna “Viveva sotto una sorveglianza strettamente rigorosa; doveva vedere meno cose possibili, capirne il meno possibile, porre meno domande possibili”.

Euripide, in una delle sue tragedie più note, Ippolito, fa affermare ad Ippolito “Bisognerebbe che gli uomini generassero i figli in qualche altro modo e che non esistesse la razza femminile”. Insomma sia in ambito politico che sociale la donna era considerata una nullità, si occupava prevalentemente delle faccende domestiche e dei figli, non aveva alcun diritto e dipendeva o dal padre o dal marito dal quale, spesso, era tradita in occasione del simposio. Di conseguenza la lingua, essendo l’espressione culturale di un popolo, non poteva che esaltarne, mostrarne e diffonderne i valori portanti. 

La questione linguistica del sessismo, su cui oggi è aperto un ampio dibattito, dunque, è fortemente interconnessa al contesto storico-culturale di migliaia di anni fa: la nostra cultura, occidentale, ha un palese retaggio maschilista, ereditato dal mondo greco fortemente misogino. 

Nella società romana Giovenale nella Satira VI delinea un ritratto impietoso della donna, marcandone il malcostume. E, facendo un balzo indietro, già Catullo nei suoi carmi si mostra molto critico nei confronti delle matrone romane, che assumono atteggiamenti indecorosi e libertini. 

Non dimentichiamo, inoltre, l’uso ricorrente di termini come “nubilis”, riferito alla donna sposabile e con accezione passiva rispetto al matrimonio o “poeta”, sostantivo maschile volto a sottolineare che certe occupazioni non riguardavano le donne. 

Più tardi col cristianesimo cambierà poco: Tertulliano descrive la donna come “Ianua diaboli”, cioè strumento del diavolo e nel De virginibus velandi sostiene che si deve coprire il capo col velo per mostrare moderazione. 

L’uso corretto delle parole, dunque, è fondamentale se si vuole costruire una società di pari perché la lingua manifesta, condiziona e indirizza il nostro modo di pensare. A tal proposito la poetessa inglese Emily Dickenson sostiene di non conoscere nulla al mondo che abbia tanto peso quanto una parola: questa è infatti capace di scaraventarsi sulla persona cui è rivolta con violenza inaudita, specie se le viene affidato un significato oltraggioso. 

Continuando a spostarci avanti nel tempo, rinveniamo ancora svariati esempi di sessismo: si pensi alla Laura petrarchesca, alla Beatrice dantesca o a Boccaccio che nel Corbaccio presenta la donna come mangiatrice di uomini. Tra il Duecento e il Trecento predomina una forte tendenza a far coincidere l’ideale con il reale e, conseguentemente, a considerare la donna perfettissima, tanto da collocare la sua sede nei cieli. Più specificamente Petrarca afferma “Costei nacque per fermo in Paradiso”, concependo Laura come oggetto di desiderio sensuale, mentre Dante usa l’espressione “Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia”, alludendo alla nobiltà d’animo e cioè al decoro che la donna doveva mostrare (si parla per l’appunto di donna-angelo). 

Si intravedranno solo successivamente spiragli di emancipazione della figura femminile con la Locandiera di Goldoni, in cui Mirandolina è presentata come donna libera, che sa controllare gli uomini da cui è circondata o con il romanzo Cime tempestose di Emily Bronte, che fa scandalo per via dell’atteggiamento libertino della protagonista Catherine. 

Questa intelaiatura, anche se breve, data la portata del problema, ci ha ricondotti alle radici della questione, tanto in ambito sociale quanto nei contesti letterario e linguistico (da annoverare tra le principali forme di espressione di ogni cultura). Ancora oggi, infatti, per definire una classe di un tot persone si parla del tot “studenti” e non di “studentesse”: si operano così delle scelte linguistiche e lessicali inconsapevoli, se si considera che il cosiddetto “maschile inclusivo” in realtà sopprime la rappresentanza femminile.

Per ritornare a quanto detto in precedenza si tratta di un grave problema sociale che si riversa sulla lingua e, proprio perché la lingua è un importante mezzo atto a veicolare messaggi, valori ed idee, dovrebbero essere operate delle accortezze, come ad esempio l’uso di forme neutrali (“persone” anziché “uomini”) oppure la tecnica dello sdoppiamento (precisare che si tratta sia di uomini che di donne). A questo scopo infatti sono sempre più diffuse nel linguaggio informale forme grafiche come tutti/e o tutt*. 

Per concludere, è fondamentale sensibilizzare e combattere la disparità dei generi su più fronti (ricordando il pluralismo di cui parla Baker): curare le parole e il modo in cui si esprime il pensiero significa rieducarsi e fornire il proprio contributo alla battaglia contro la disparità dei generi.

GIULIA GENTILE, classe V B

Articolo inviato dalla Prof.ssa Antonella Ventura