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AL RENDANO LA TRAGEDIA DI SOFOCLE  SECONDO IL MAESTRO LOMBARDO

 

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  A volte la solitudine è una cosa atroce, 

il silenzio è una cosa insopportabile.

                                            Alda Merini 

 

Le pietre di una città antica, Tebe, pietre capaci di rendere la roccia voce senza tempo … I versi di uccelli come monito di vate e destinati ad aleggiare sulla vestigia di un luogo vissuto fra luci e ombre, fra sangue versato e acque lustrali per necessaria catarsi … Le note struggenti di un canto che si leva come pianto e preghiera, mentre la fiammella di una lucerna tenta di essere rito per chi è caro ma bandito da chi non riconosce leggi superne… 

Presenze fantasmiche appaiono, affinché ricordino, e poi si dissolvono, per ritornare al silenzio che resta come tacita parola. Il coro si stringe intorno ai protagonisti e accompagna, ammonisce, rammenta, si muove come palpito continuo di cuore, per tutto l’evolversi del dramma, simile a un filo fatale che deve dipanarsi, per esplicare l’inesorabilità di un conflitto tragico inconciliabile, quando destino e libero arbitrio sono l’uno di fronte all’altro e in posizione antitetica. 

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In tale contesto Antonello Lombardo ha tessuto la trama del suo lavoro incastonato nella possanza di una scenografia, in cui la roccia, in apparenza inerte, prende forma e anima anfratti, venature, solchi, una caverna che è luogo cruciale. D’altronde sono ben noti il talento, l’ispirazione, le intuizioni geniali di un regista, che rende la sua esperienza artistica fonte inesauribile di ideazione fra scena, luci, azioni, musiche e coreografie. Per il privilegio, che egli mi ha concesso, ritenendomi “compagno di viaggio” lungo i sentieri tragici (condivisi in anni passati con la Prof.ssa Marta Leonetti e ora con la Prof.ssa Adelaide Fongoni, attualmente distaccata presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria e il Prof. Pierluigi Pedretti), posso ben confermarlo, se ripenso a tutto l’itinerario condiviso: “Baccanti” di Euripide, “Edipo da Tebe a Colono” di Sofocle, “Orestea” di Eschilo, “Ippolito e Fedra” di Euripide (con contaminazioni senecane), “Medea” di Euripide e ora “Antigone” di Sofocle sono tappe che restano come pietre miliari per le Officine Teatrali Telesiane, che, fortemente volute dal nostro Dirigente Scolastico e accolte con entusiasmo dal collega Antonello Lombardo, il quale ne ha accolto la direzione artistica nonché il lavoro infaticabile di regista, sono realtà preposte a rendersi tramite tra mondo antico e contemporaneità nel firmamento del nostro Liceo assurto a ideale “Siracusa bruzia” per il teatro greco. Il regista, attingendo idealmente a un correlativo oggettivo, ha concepito l’eroina della saga tebana, Antigone, pari a uno sguardo capace di scandagliare il reale, senza limiti spaziali e temporali. I suoi occhi si traducono in voce della coscienza, che arriva all’umanità: l’intento è quello di instillare gocce di amara ma necessaria verità. Solo la consapevolezza porta luce e scaccia le ombre del dubbio e del pregiudizio. A conferma di questo è bastevole pensare ai cori sapientemente curati e modellati dal regista, perché ne risaltassero i contenuti come <<pietre di paragone>>, e, inoltre, agli “innesti innovativi”, alle “contaminazioni” e al “finale a sorpresa”, che si rende prolungamento dell’epilogo tradizionale della tragedia, in cui il cumulo delle colpe sgretola le granitiche convinzioni di Creonte, per lasciare occasione di destabilizzante riflessione e incontenibili punti di domanda, che sgorgano coma acqua pura di sorgente, mentre si è alle prese con il cammino sul filo del destino, rammentato dalle parole solenni e ammonitrici di Tiresia. 

Il cieco indovino è colui che elargisce continua gnome, con cui esorta a contenere l’impeto scatenato dal furor e a ricorrere alla moderazione e alla misura con senno e lingua guidata dal decoro. La sua figura ieratica rievoca atmosfere dionisiache e apollinee, dimensione enigmatica e misterica, fragranza dei narcisi di Colono e dei crochi, che insieme al canto degli usignoli rimandano alla fanciulla ineffabile, alla dea Kore, la quale, a sua volta, rievoca il limite estremo, il confine sottile tra buio e luce. Tutto sembra riportarci al sacro bosco di Colono, dove proprio Antigone è al fianco del padre Edipo e ode “il canto melodioso” dell’usignolo che “canta senza fine il suo lamento triste”… Sarà, poi, proprio ella a rendersi voce lacerante di un canto struggente capace di renderla delicato usignolo fra rovi tebani sparsi fra rocce emblematiche. 

La poderosa e monumentale scenografia rupestre, come un sorta di “bocca della verità” si “spalanca” per rivelare e, al contempo, mostra di sé la traccia di porte e di un frontone in un architrave, che simboleggiano l’antico governo di una città, l’eco dell’effimera vanagloria del potere. In tale contesto, in cui la roccia è pietra che parla, Antonello Lombardo ha orchestrato la sua reinterpretazione della tragedia, rivisitandone alcuni tratti. A ogni personaggio ha dato corpo e anima secondo scelte mirate e seguendo una linea, che fosse immagine speculare di quel filo del destino, già citato, che Tiresia vaticina allo sprezzante Creonte, a cui, quale voce della coscienza, destina moniti e rammenta che l’arroganza e l’ostinazione dell’uomo non portano frutto ma colpa ed espiazione. Al contrario a chi sa intendere e impara che <<la saggezza è la prima condizione della felicità>> sono risparmiati <<i colpi spietati del destino>>.

Il saggio indovino può affiancarsi con slancio ideale e analogico ad Antigone e al Coro come “simulacro” della voce della coscienza, che scava come acqua la roccia. 

Le loro parole arrivano come versi ammonitori di quegli uccelli che aleggiano, per tutto il tempo del dramma, sulla città di Tebe racchiusa nelle sue poderose mura di pietre e roccia.

Il monito è quello di ricordare che <<chi vuol vivere oltre il limite giusto/ e la misura dimentica/ cela in sé palese stoltezza>>, come rammenta un altro Coro, che è quello dei vecchi nella tragedia “Edipo a Colono”. Tutto sembra rimandare sempre all’estremo confine, all’estremo raggio di luce, all’estrema parte della vita, all’estremo passo, che è ponte tra finito e infinito. 

L’essenza di tale dimensione cosmica pare, poi, racchiudersi nell’inquietante teschio del toro, che, secondo l’accurata scelta evocativa e simbolica del regista, si distingue fra le rocce, dove, rievocando il mito di Teseo e Ippolito, il giovane principe da esso ucciso, è monito della precarietà umana. Alla sua muta ma eloquente presenza si affianca quella di versi gnomici assimilabili al battito d’ali di quegli uccelli, che sovrastano invisibili ma udibili la scena: <<Onorare i morti è dovere pietoso>>; <<La ragione è il bene più alto che gli dei abbiano concesso all’uomo>>; <<Fa onore a un uomo, per quanto saggio egli sia, continuare a imparare senza chiudersi nell’ostinazione>>. A questi si possono legare, per efficace analogia, quelli euripidei, che si ritrovano nelle “Baccanti” come morale conclusiva: <<Molte le forme del divino./ Molti i miracoli operati dagli dei./ Nulla si compie di ciò che è atteso/ ma un dio trova la via dell’inatteso>>.

Su tutto sembra ergersi l’immagine austera e veneranda di Dike, della giustizia, e l’essenza della legge, che si lacera nel contrasto tra pietà e potere. Intanto il Coro rammenta che <<molti sono i prodigi e nulla è più prodigioso dell’uomo>>, la terribile e straordinaria creatura al centro dell’universo sofocleo, nell’inevitabile condizione di solitudine, alimentata dal tratto unico e irripetibile dell’individualismo, vissuto fra fragilità e caducità, nello slancio eroico, che palpita tra agire e patire. Non si può non pensare, in tale suggestivo e struggente contesto, alla preghiera di Antigone, che il regista ha inteso “innestare” come fiore di asfodelo, perché potesse effondere il grido del suo grande dolore. Antonello Lombardo attinge all’ispirazione sofoclea, a quella radice tragica profonda e intimamente vissuta, per mostrarci che l’uomo è <<lampo nella notte>>, dissidio tra bene e male, anelito e tensione, desiderio di luce, di cui è perennemente e incessantemente assetato, sogno che si leva come soffice nebbia mattutina, avvolgente come quello che il regista ha ideato nell’antefatto, che precede l’incipit della tragedia (per il quale egli si è avvalso della  delicata presenza di alunni della scuola elementare e media del Convitto): il piccolo Eteocle sogna il futuro fatale che segnerà le sorti del fratello Polinice e di se stesso, ma, non a caso, il sogno si interrompe nel momento supremo, che egli non può e non deve ricordare, perché sarà il tempo opportuno a sanare ciò che dovrà compiersi. Eco lontana, vaga, indefinita e remota de “I sette contro Tebe” di Eschilo, questa parte effonde il suo sussurro sommesso e le sue suggestioni ed evocazioni, in linea con il tratto registico di Lombardo, che coglie, attinge, contamina, lega, fonde secondo le linee e i fili di un arabesco, con cui desidera donare unità e armonia colme di emozione da elargire, che ha saputo profondere anche grazie a una compagnia di attori straordinari: Coro e corifei, Antigone, Ismene, Creonte, Tiresia, Emone, Euridice, nunzio, guardia sono stati interpretati con passione e talento da studenti del Liceo e del Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria.

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Le loro voci si sono elevate da quelle rocce, in cui era incastonata idealmente Tebe, e con esse si è udito il canto di Antigone e del Coro come preghiera << a mani protese>> e come <<grido del grande dolore colmo di paura>>. Tutto è stato offerto <<agli antichi simulacri dei numi>>, <<ai beati che pongono sulla città la loro difesa>>.

Sembra di scorgere in quella linea sottile dell’orizzonte, pari a un limite tra finito e infinito, il velo lieve e delicato della pietà, che tenta di rammentare al cuore umano di essere sua ospite e nutrice, anche se l’uomo troppo spesso la calpesta, proprio come accade in ogni tempo, e il regista lo ricorda, come sigillo a mo’ di firma d’autore, nel finale a sorpresa (in cui Antigone propone un passo tratto dall’articolo di Erri De Luca “Le carezze in tasca”) che segue dopo l’epilogo classico, confermando il legame indissolubile tra antico e contemporaneo nell’universalità, che accompagna l’umanità. A me piace congedarmi con l’immagine carezzevole della fievole fiammella della lucerna di Antigone insieme all’auspicio che possa essere luce di speranza per l’uomo, che troppo spesso si ostina a non voler imparare e poi, che gli piaccia o meno, riscopre ogni volta che <<si apprende attraverso il dolore>> e, in tale condizione, dovrebbe volgere il suo animo al perdono e alla solidarietà.

                                                                                                                                                                                                                         Flavio Nimpo

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